Intervista a Matteo Catania e Eleonora Rebiscini di Hubove Studio
La cultura è lenta, il digitale corre veloce. In mezzo c’è lo spazio in cui si muove Hubove Studio, che da anni lavora con istituzioni e realtà culturali per creare contenuti ed esperienze coinvolgenti e accessibili, senza mai perdere profondità. In questa intervista Matteo Catania ed Eleonora Rebiscini, docenti in diversi Master di Treccani Accademia in Management dell’Arte e dell’Editoria, raccontano come si costruisce una narrazione culturale efficace, quali sfide pone il rapporto con i social e con le nuove generazioni, e perché — anche nell’era degli algoritmi — il punto di partenza resta sempre lo stesso: studiare.
Il vostro lavoro mette in dialogo cultura e digitale. Cosa avete capito in questi anni su come si costruisce una narrazione culturale efficace?
Che la narrazione culturale efficace non si improvvisa. È il risultato di un lavoro paziente che parte dallo studio approfondito del contenuto e del contenitore, ovvero la mostra e lo spazio espositivo che la ospita.
Noi ci occupiamo di comunicazione, ma prima ancora siamo formati nel campo delle discipline umanistiche: chi guida il progetto è una storica dell’arte, e questo significa che ogni progetto, ogni mostra, ogni collezione richiede prima di tutto una fase di analisi e comprensione. Solo dopo arriva la parte strategica, quella in cui si scelgono i linguaggi, i formati e i canali. Senza questo passaggio preliminare, il rischio è di raccontare tutto allo stesso modo. E la cultura, per fortuna, non è tutta uguale.
La vostra bio di Instagram dice: “Il digitale è veloce, la cultura è lenta: aiutiamo le istituzioni culturali a trovare una via di mezzo”. Come si costruisce questa via di mezzo?
Si costruisce facendo mediazione, un lavoro delicato che si costruisce tutti i giorni. Il digitale corre per definizione, basta guardare i video realizzati con l’AI nel 2025 rispetto a quelli di due anni fa, la cultura si prende il suo tempo e tende a rimanere uguale a sé stessa (e non sempre questo è un bene): il nostro lavoro è farli incontrare nel punto in cui possano capirsi. Questo non significa semplificare o velocizzare il contenuto, ma trovare forme narrative che permettano al pubblico di avvicinarsi, senza sentirsi escluso a priori.
È un lavoro di equilibrio continuo: mantenere la profondità del contenuto culturale, ma metterlo in circolo con gli strumenti e i tempi della contemporaneità.
Potete raccontarci un progetto che avete seguito e che, secondo voi, rappresenta al meglio il potenziale della comunicazione digitale applicata al mondo della cultura?
Un esempio significativo è il lavoro fatto con Le Stanze della Fotografia per la mostra dedicata a Robert Mapplethorpe. Oltre alla comunicazione sui canali social, abbiamo affiancato il team digital e curatoriale nella costruzione di un ecosistema digitale: video-interviste, contenuti editoriali, QR code in mostra, materiali accessibili da remoto.
Abbiamo realizzato una vera e propria appendice digitale per i visitatori, un po’ come accade nei grandi musei internazionali: chi visita la mostra ha a disposizione una pagina web dedicata, con interviste esclusive, approfondimenti, immagini, link e materiali extra.
L’obiettivo non era “pubblicizzare” l’evento, ma ampliare i modi di fruizione, costruire ponti narrativi tra ciò che accade nelle sale espositive e l’esperienza del pubblico, anche a distanza.
Parliamo di social: come si può mantenere alta la qualità dei contenuti, rispondendo allo stesso tempo alle logiche degli algoritmi e ai trend del momento?
Serve una regia forte. I social sono strumenti potenti, ma non si possono affrontare senza un piano. La qualità si mantiene se si parte da un contenuto solido, ben studiato, ben scritto, ben visualizzato, e si adatta alla grammatica del canale, senza sacrificare il messaggio. Non significa rincorrere ogni tendenza, ma saper scegliere cosa può davvero valorizzare il progetto, e cosa no.
Nel nostro lavoro gestiamo l’intero flusso, dalla definizione della strategia alla produzione dei contenuti. Questo ci consente di progettare campagne dove ogni contenuto ha uno scopo preciso e risponde sia agli obiettivi culturali dell’istituzione, sia alle dinamiche dei canali digitali. Quando pensiamo a una campagna, sappiamo esattamente come costruire ogni singolo contenuto, dalla prima parola fino all’ultimo hashtag, passando per le moodboard dei video fino alla loro realizzazione, nei tempi concordati.
Si parla spesso di accessibilità e digitale: ma è davvero così? Quanto il digitale contribuisce, concretamente, a rendere il patrimonio culturale più accessibile?
Può farlo, ma non sempre accade. Il digitale può abbattere barriere, geografiche e cognitive, ma solo se è progettato con cura. Non basta “mettere tutto online”: bisogna pensare a chi sta dall’altra parte, ai diversi livelli di conoscenza, alle disabilità, ai tempi di fruizione.
L’accessibilità è una questione di linguaggio, di struttura, di intenzione. Il digitale non garantisce automaticamente inclusione: la favorisce, se lo si usa con responsabilità.
Quali sono, secondo voi, le principali difficoltà o resistenze che le realtà culturali incontrano quando cercano di coinvolgere le nuove generazioni? E dove ci sarebbe, invece, margine per crescere?
Una delle resistenze principali è la paura di cambiare linguaggio. Molte realtà temono che avvicinarsi al digitale, che nella maggior parte dei casi per loro vuol dire avvicinarsi alle nuove generazioni, equivalga a banalizzare i contenuti. Non è così: si può comunicare con linguaggi contemporanei senza perdere rigore.
Dove si può crescere? Nell’ascolto. Spesso le nuove generazioni non vogliono solo “fruire” cultura, vogliono partecipare, produrre contenuti, sentirsi coinvolte nei processi. Accogliere questa domanda è la vera sfida.
Quali sono le 3 competenze principali che servono oggi per lavorare nel management culturale?
- Capacità analitica e progettuale
È fondamentale saper leggere contesti culturali, studiare le fonti, comprendere i pubblici e costruire strategie su misura. Non basta avere creatività: serve struttura e metodo. - Competenze digitali trasversali
Non si tratta solo di conoscere gli strumenti, ma di comprendere come il digitale possa potenziare la narrazione culturale. Significa saper connettere contenuti, dati, canali e obiettivi, all’interno di un progetto coerente. In termini più concreti: va bene fare bene un reel, ma è altrettanto necessario saper leggere un report e trasmettere al cliente cosa è andato bene e cosa è andato storto, per aggiustare il tiro la prossima volta, e così via. - Empatia strategica
Non parliamo di gentilezza generica, ma di una vera e propria competenza professionale: saper ascoltare e interpretare i bisogni di un’istituzione e dei suoi pubblici, mediare tra visioni diverse, costruire relazioni durature. È ciò che rende un progetto sostenibile, almeno secondo noi.
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fotografia: crediti Matteo Catania