Intervista a Daniele Chieffi, giornalista e consulente strategico in comunicazione digitale e reputation, co-fondatore di Bi Wise, CEO di The Magician e presidente di NoaCom, docente e autore di diversi saggi su crisi, media e brand
Che cosa distingue una comunicazione efficace da una comunicazione che fallisce? A partire da alcuni casi molto discussi degli ultimi anni Daniele Chieffi riflette su come si costruisce una voce credibile, capace di entrare in relazione con le persone invece di cadere nell’autoreferenzialità. E ci parla anche di coerenza, di reputazione, di quel “governo della percezione” che non è manipolazione ma consapevolezza. E sì, anche di come scrivere una mail efficace. Un invito a osservare la comunicazione contemporanea e digitale con occhi nuovi: non come un atto tecnico, ma come un gesto di responsabilità verso la società e verso chi ascolta.
Dal Pandoro Gate di Chiara Ferragni alla pubblicità della pesca di Esselunga: che cosa succede quando una comunicazione non funziona come si vorrebbe?
Succede che si rompe l’equilibrio tra intenzione e percezione. Ogni comunicazione ha un piano manifesto e uno simbolico: quando questi due livelli non sono coerenti o entrano in contraddizione, il pubblico lo percepisce immediatamente. È lì che si genera il cortocircuito.
Il caso Ferragni è emblematico: la narrazione dell’impegno benefico si è scontrata con una logica promozionale pura. La delusione che ne è seguita ha distrutto la credibilità e la fiducia. È un esempio lampante di come oggi la reputazione sia il vero asset. Citando Annamaria Testa, la reputazione è “ciò che io penso che gli altri pensino di qualcuno o qualcosa”, un processo sociale, una sentenza valoriale pubblica.
Nel caso Esselunga, viceversa, ha giocato con la polarizzazione. Ha attivato un codice simbolico potentissimo, consapevole, spero, dei canoni interpretativi che avrebbe attivato. Il risultato? Una comunicazione divisiva che ha parlato a una specifica parte dell’audience, allontanando l’altra. Se questo era l’obiettivo, hanno avuto pieno successo. La morale è che non basta comunicare bene, bisogna governare il senso che il pubblico attribuirà a ciò che diciamo.
Come si costruisce una voce aziendale credibile, capace di uscire dall’autoreferenzialità e parlare davvero alle persone?
Serve un cambiamento profondo: smettere di pensare alla comunicazione come strumento per raccontarsi, e iniziare a usarla per entrare in relazione. Una voce credibile nasce dalla coerenza tra parole e comportamenti, tra visione e azione. Non si costruisce a tavolino, ma si sedimenta nel tempo, attraverso scelte, stile, tono, responsabilità.
Bisogna conoscere il proprio pubblico, capirne il linguaggio, intercettarne i bisogni profondi e riuscire a creare valore percepito, non solo contenuto. Oggi le aziende che comunicano meglio non sono quelle che parlano di sé, ma quelle che riescono a far sentire le persone protagoniste della storia che stanno raccontando.
È stato Direttore della Comunicazione e PR del Ministero per l’Innovazione e la Digitalizzazione. Qual è stata la lezione più importante che ha imparato in questo contesto?
Che comunicare per un’istituzione non è un atto tecnico, ma un atto politico nel senso più nobile del termine. In quel contesto ho capito quanto sia delicato e complesso comunicare un cambiamento reale, soprattutto quando impatta la vita delle persone.
Ho imparato quanto sia importante la trasparenza e quanto la narrazione pubblica debba essere onesta, chiara e responsabile. E ho toccato con mano un principio fondamentale: nelle istituzioni, comunicare bene non è una scelta, è un dovere democratico.
Lei parla spesso di “governo della percezione”: di che cosa si tratta?
Significa prendere consapevolezza che oggi non governiamo i fatti, ma il senso che viene attribuito a quei fatti. Viviamo in una realtà dove la percezione è diventata realtà condivisa.
Governare la percezione non significa manipolarla, ma comprenderne le dinamiche: sapere come funziona la mente di chi riceve, quali simboli attiva, quali bias si innescano, quali frame cognitivi si muovono dietro ogni messaggio. Chi comunica deve sapere che ogni atto, ogni parola, ogni gesto viene interpretato, e che la vera partita si gioca su quel piano. Il governo della percezione è oggi la nuova forma di potere.
Nella comunicazione professionale quotidiana, ad esempio quella via email, esistono delle regole da tenere sempre a mente? E qual è l’errore più frequente che viene commesso?
Assolutamente sì. L’email non è solo un mezzo, è un atto comunicativo formale e simbolico, e viene percepito in quanto tale. Il tono, l’ordine delle parole, la scelta del destinatario in copia… tutto comunica.
L’errore più frequente? Scrivere pensando solo a quello che vogliamo dire, e non a come verrà percepito. Una frase neutra può sembrare fredda, una richiesta può apparire un rimprovero, una chiusura frettolosa può essere letta come indifferenza. Nella comunicazione digitale, il contesto lo crea chi riceve, non chi scrive. E questo impone una responsabilità comunicativa enorme.
Se potesse dare un solo consiglio a uno studente o una studentessa che inizieranno un Master e si confronteranno con sfide comunicative, quale sarebbe?
Allenate lo sguardo prima ancora della penna. Imparate a osservare la comunicazione come un sistema complesso, fatto di parole, simboli, emozioni e relazioni.
Fatevi una domanda ogni volta che leggete una campagna, un post, un articolo: “Perché sta funzionando (o non funzionando) così?” Non limitatevi a studiare le tecniche. Chiedetevi sempre che cosa davvero genera impatto nella mente e nel cuore delle persone. È lì che si gioca il futuro di chi comunica.
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