Intervista a Laura Borgogni, Professoressa Ordinaria di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni
Il talent management, inteso come valorizzazione dei talenti individuali, non ha come unico obiettivo la ricerca di collaboratori da inserire in un’organizzazione. È piuttosto un vero investimento che l’organizzazione fa sul valore che un individuo può portare in azienda nel corso del tempo: il cosiddetto capitale umano. In un contesto come quello attuale, caratterizzato dalla digital transformation e dall’integrazione massiva del remote working, lo sviluppo dei talenti diventa un tema sempre più strategico.
Ne abbiamo discusso in questa intervista con la Professoressa Ordinaria di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni Laura Borgogni, direttrice scientifica dell’Executive Program Performance & Talent Management.
Prof.ssa Borgogni, ha senso oggi parlare di valutazione dei talenti?
«Il termine valutazione viene utilizzato sempre meno almeno dagli HR del contesto italiano perché richiama una dimensione “giudicante” nei confronti del collaboratore e statica. Negli ultimi anni è stato dunque sostituito con la nozione di performance management, proprio per enfatizzare l’aspetto dinamico e di sviluppo della prestazione scindendolo dalla valutazione. Tuttavia se restituiamo alla parola “valutare” il suo connotato originario e la intendiamo come dare valore, valorizzare, ecco che la valutazione rappresenta un passaggio necessario e preliminare per l’efficacia di un performance management. È infatti molto importante che tutte le azioni di performance management poggino le loro premesse proprio sulla valutazione, ovvero sul riconoscimento dei punti di forza e delle aree da sviluppare del collaboratore sulla base del quale impostare un percorso di crescita per ognuno».
Valutazione vs performance management: cosa è più efficace?
«La valutazione della prestazione è considerata un’azione statica, fatta una volta all’anno per individuare punti di forza e criticità della persona. Con il performance management si enfatizza la gestione della prestazione per lo sviluppo delle persone, che parte dall’assegnazione degli obiettivi all’individuo e passa per il monitoraggio di questi nel tempo, attraverso momenti di feedback responsabile-collaboratore. Tuttavia è possibile impostare un performance management efficace solo se effettivamente il responsabile ha le capacità e le competenze per valutare il collaboratore. Il performance management rappresenta lo snodo per il quale passa anche lo sviluppo del responsabile nelle sue capacità di gestione del collaboratore, al quale restituisce delle opportunità di crescita con obiettivi specifici e sfidanti che sono mirati e che tengono conto delle sue capacità e motivazioni. L’idea è di declinare il performance management con il modello del Goal Setting: è in questo modo che si attiva effettivamente un processo di sviluppo della prestazione».
Quale contributo possono dare le nuove tecnologie?
«Un buon performance management deve essere supportato da un software di gestione in grado di garantire il lungo processo di raccolta dati e la loro elaborazione. Avere un database sempre aggiornato consente di fare tutta una serie di analisi che sono fondamentali nella gestione HR. Incrociare i dati, le valutazioni e i percorsi nel tempo in relazione a determinati obiettivi agevola l’attività di monitoring, e in questo le tecnologie danno un grande aiuto. La data analysis, in particolare, offre l’opportunità di cogliere quali sono gli aspetti predittivi della prestazione di successo, quali le variazioni e i trend che la persona si trova a vivere nell’organizzazione. L’utilizzo di metodologie statistiche sempre più sofisticate può consentire di fare delle previsioni per il futuro».
Quant’è importante lo strumento del feedback?
«Il feedback è un passaggio cruciale per il collaboratore per capire anche che cosa non sta andando bene e come migliorare sulle criticità. Molto spesso il feedback arriva un po’ fuori tempo massimo. Se dall’evento critico si aspettano 1-2 mesi, 6 mesi o addirittura un anno, diviene uno strumento poco utile alla causa. L’idea che promuovo è quella di utilizzare un’app o un sistema digitale che spinga il responsabile a formulare il feedback tempestivamente rispetto a un determinato accadimento, in modo tale che nel tempo si raccolgano tutta una serie di appunti e consigli che poi possano essere restituiti alla persona, sintetizzati, in una forma di valutazione e di analisi. Questo, tra l’altro, permetterebbe anche di fare delle analisi predittive in grado di accompagnare lo sviluppo delle risorse e di migliorare, più in generale, i processi di gestione della prestazione».
Quali sono le frontiere nella valutazione del potenziale?
«Negli ultimi vent’anni c’è stato il boom degli assessment center, tutti centrati sulle competenze: metto le persone alla prova in situazioni ad hoc, vedo se presentano comportamenti che secondo me rientrano nel potenziale e, infine, vado a rilevare le competenze attese. Credo però che tali competenze, in un contesto lavorativo in continua evoluzione come quello odierno, siano molto esposte all’obsolescenza, specie in situazioni emergenziali come quella che abbiamo vissuto nell’ultimo periodo. La mia idea è di andare a intercettare quelle caratteristiche di tipo personale che sottostanno alle competenze e che consentono alle persone di crearne e svilupparne di nuove senza aspettare che vengano sollecitate dall’esterno. La proposta ha a che fare con la rilevazione della agenticità, ovvero della capacità di una persona di muoversi nel contesto lavorativo in maniera proattiva, anticipando il futuro, creando le occasioni per mettersi alla prova e per acquisire nuove competenze. Affiancare gli assessment basati sulla rilevazione dei comportamenti a strumenti specifici come questionari, prove e colloqui ad hoc che rilevano queste dimensioni più nascoste, è secondo me la vera frontiera sulla quale lavorare e su cui sensibilizzare gli HR, le organizzazioni e la consulenza».