Il lavoro culturale come redazione

Agosto 3, 2022

Interviste

Intervista a Francesco Pacifico e Matteo De Giuli

Lavorare in redazione significa prima di tutto opporsi all’atomizzazione del lavoro culturale contemporaneo: prendere consapevolezza del proprio ruolo nel mondo, del modo in cui si esercita il pensiero e di come, ancora oggi, il lavoro intellettuale e culturale può dare forma alla realtà che ci circonda. È questo l’obiettivo che si pone la Scuola del Tascabile promossa da Treccani Accademia: allenare gli e le studenti alla vita di redazione: un ecosistema preciso fatto tanto di confronto e scambio quanto di speculazione e studio individuali. La Scuola del Tascabile diventa così un laboratorio di scrittura culturale che nasce dall’esperienza dell’omonima rivista di Treccani «il Tascabile» e si inserisce nel composito panorama dell’offerta formativa di Treccani Accademia.

Per cercare di capire quali saranno i temi di discussione e quell’idea di laboratorio che diventa redazione che è alla base della vocazione didattica della Scuola del Tascabile, abbiamo intervistato Francesco Pacifico e Matteo De Giuli: entrambi senior editor della rivista di Treccani «il Tascabile», si occuperanno di guidare gli studenti del 2022 attraverso un percorso ricco di ospiti e di testi da scrivere, riscrivere, editare e discutere insieme.

Ciao Francesco, ciao Matteo. Iniziamo da una domanda difficile: cosa vuol dire essere un intellettuale oggi?

Francesco Pacifico: È una risposta imbarazzante che non può essere data in pubblico. Nell’era dello spettacolo, anche una risposta su cosa voglia dire essere intellettuale oggi diventerebbe parte dello spettacolo. Esistono ancora cose che vanno dette in segreto.

Matteo De Giuli: Questa è una domanda che lasciamo aperta, e che sarà una delle questioni centrali del nostro laboratorio. Ma cercheremo delle possibili risposte confrontandoci anche con gli ospiti che avremo a lezione, scrittori, scrittrici, editor, giornaliste che ammiriamo, che ci racconteranno il loro percorso che è fatto spesso di cambi di rotta e nuove partenze. Perché ci sono definizioni e ruoli consolidati degli intellettuali nella società. Ma oggi c’è anche una parte più crudamente pragmatica della vita intellettuale, ormai inscindibile dal resto: quasi il 50% dei lavoratori culturali in Italia è freelance e deve affrontare lo sforzo di fare cose anche molto diverse tra loro. Non si può più solo scrivere, e allora si sperimenta con i podcast, i festival, le consulenze editoriali. Cercando sempre di riconoscere la differenza tra prodotto e cultura, tra content e discorso intellettuale. E imparando in più a barcamenarsi in una gestione sensata del proprio tempo, cercando di cogliere le occasioni e riconoscendo subito, per esempio, quali sono le fregature tra le tante richieste di lavoro mal retribuito che di sicuro arriveranno.  

La Scuola del Tascabile è organizzata come se fosse una redazione: cosa significa lavorare in una redazione?

FP: Significa trovare il luogo per dire quel segreto, e poi nasconderlo in bella vista fra le cose che si scrivono. Lavorare in una redazione vuol dire uscire dalla propria testa sviluppandola. Vuol dire imparare con gli altri, diventare forti, trovare una casa.

MDG: Ho lavorato per diversi anni in radio, a Radio3, in una redazione vera e propria, dove la cultura si fa ancora in ufficio o al bar, e la vita intellettuale è fatta di incontri fisici, di litigi, di libri che passano di mano in mano. Ma realtà di questo tipo sono sempre più rare. Oggi lavorare in una redazione vuol dire con ogni probabilità lavorare online, utilizzare Slack, Drive, WordPress e darsi appuntamento su Zoom. E infatti sono questi gli strumenti che durante la Scuola del Tascabile useremo per costruire la classe-redazione. Ma bisogna essere consapevoli anche di cosa si è perso nel passaggio al digitale. Perché Internet ha creato un mondo meraviglioso di riviste online, ha aperto l’editoria a nuovi linguaggi, nuovi sguardi, nuove possibilità. Ma ha eliminato tutta la parte vitale e faticosa che nasceva dalla conoscenza diretta. Come scriviamo nell’articolo di presentazione della Scuola del Tascabile, “una delle conseguenze più gravi è che molte teste di cui la scena culturale avrebbe bisogno continuano per anni a scrivere per le riviste senza entrare in un dialogo che li aiuti a crescere. Forse è inutile aggiungere che la pandemia ha consolidato questa tendenza, lasciando ancora più a se stesse le persone giovani che vogliono conoscere il mondo delle riviste, degli eventi culturali, delle case editrici”. Uno degli obiettivi della Scuola del Tascabile è proprio quello di capire come navigare in questa realtà polimorfa.

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Qual è il pezzo che ciascuno di voi ha scritto e che vi ha dato la sensazione di aver portato qualcosa nel mondo? E perché?

FP: La reazione è imprevedibile, io scrivo ciò di cui ho voglia. Ultimamente ho scritto una presa in giro dell’idea di decoro nei quartieri propalata da chi possiede case e non vuole svalutare il proprio investimento. Ho fatto la parodia al tono falsamente civico di chi invita i cittadini a lavare le strade perché lo stato fa schifo, ma lo fa per poter fare un airbnb, che è una delle cose che distrugge i quartieri. Una sola persona mi ha scritto, ma era davvero invasata e mi ha dato la sensazione di aver fatto bene a impiegare quella mezza pagina di formato tabloid per fare polemica, anzi addirittura per trollare. Portare qualcosa nel mondo vuol dire abbracciare il caos.

MDG: Non sono particolarmente affezionato a nessuno dei pezzi che ho scritto. Mi piace però vedere il percorso che creano se li metto tutti insieme: il modo in cui, per esempio, sul Tascabile sono partito dalle questioni di scienza e società per passare, negli anni, a scrivere soprattutto di letteratura.  Per il resto al Tascabile diffidiamo dall’idea di pubblicare il pezzo “definitivo” su un argomento, cosa che le autrici e soprattutto gli autori delle riviste online troppo spesso sperano invece di riuscire a fare. Ma la cultura si crea  a piccoli passi, e non c’è bisogno di scrivere per forza “pezzoni”, ogni pezzo che si scrive può essere anche soltanto un frammento di un dialogo più ampio che l’autrice o l’autore apre con il resto del mondo culturale.

Secondo voi, in che modo il digitale ha cambiato il ruolo dell’intellettuale? Che differenza c’è tra intellettuale e influencer?

FP: In un modo molto semplice: è più difficile leggere cose dall’inizio alla fine. Si cede al Flusso, il grande strumento di manipolazione psicologica elaborato dai social. Il Flusso vuol dire non conoscere più l’esperienza della fine temporanea. Del capitolo finito. Come ci svegliamo e andiamo a letto, e questo ciclo rende possibile l’indeterminatezza della vita, poter finire un libro o la lettura di una rivista è l’esperienza di aver chiuso una cosa e poter andare avanti. Il Flusso ci mette dentro la sensazione che tutto sia infinito e inconoscibile. Una mezza verità che aiuta la diffusione del reggaeton e dei suoi quattro accordi (VI- / IV / I / VII). L’influencer ha accettato la realtà del Flusso e fa tutte le cose che possano far sentire la sua voce all’interno di una realtà di Flusso che non ha capitoli discreti. Quindi l’influencer ha accettato le condizioni, ha accettato lo stato delle cose. L’influencer ti può dare solo cose che stanno bene nello stato delle cose. Non a livello di contenuto: li può dare tante cose diverse, ma a livello di forma del mondo. L’influencer accetta che la forma del nostro mondo è un bicchiere col fondo bucato, dove non si trattiene niente.

MDG: Per questa risposta baro e dico vedi le prime due.

Qual è la persona che avreste sempre voluto intervistare e perché?

FP: Andreotti. O forse Sciascia appena uscito da un’intervista ad Andreotti mentre scrive Todo Modo. Per vedere la profondità della banalità del male.

MDG: Ho da poco letto la raccolta di saggi tradotta in Italia e dico Ursula K. Le Guin per il suo approccio alla scrittura e alla vita, per il modo in cui il suo pensiero viveva di inciampi e contraddizioni e autoironia.


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